Nauticsud 2010: Convegno di “Barche” sul design, Commenti

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I convegni si fanno per confrontare e dibattere le idee; su questo non c’è dubbio. Ma quando, come in questo caso, a discutere non sono degli accademici ma professionisti impegnati quotidianamente sul campo e nel mercato credo che le loro affermazioni e i loro concetti “filosofici” vadano confrontati con le loro realizzazioni se non altro per verificarne coerenza e applicabilità.

Nel nostro specifico caso, facendo questa semplice verifica notiamo che, quasi sempre, quelli più convincenti sul piano delle idee sono anche quelli che producono le barche più banali, ingenue e squilibrate. Questa constatazione, pur con tutta la genericità del caso e fatto salvo qualche lodevolissima eccezione, lascia supporre che forse i “professori” e i “guru” sono più bravi a riciclare, spacciandole per originali, idee prese a prestito da altri loro colleghi o trasferite pedissequamente da altri campi forse per pigrizia ma sicuramente senza nessuna cultura nautica.

A determinare questa superficialità concorre anche il fatto che “la barca” è, oggi più di ieri, un prodotto talmente complesso che senza una profonda preparazione e una grande padronanza di tutto il processo progettuale e produttivo specifico la più brillante delle intuizioni rischia di perdersi per strada e di annegare nel mare di compromessi necessari a portare a termine l’opera.

Con questo non voglio dire semplicemente che un buon costruttore navale che conosca perfettamente il suo mestiere e che si preoccupi solo di far funzionare correttamente la nave sia tutto quello che serve. Se così fosse non si spiegherebbe l’enorme successo e l’indiscusso gap di qualità totale che esprime il made in Italy in questo settore da decenni.

Quello che affermo è che non è neanche sufficiente “rivestire” il prodotto con un guscio graficamente gradevole o semplicemente “in tendenza” come spesso si è fatto negli ultimi quindici anni dove abbiamo visto ogni anno presentare nuove “collezioni” esattamente come qualsiasi casa di moda dimenticandosi che una barca, pur piccola (e questo vale soprattutto per le grandi barche) non puoi certo metterla in un armadio in soffitta o regalarla alla colf filippina.
A questo scopo sono fiorite ultimamente le cosiddette: “contaminazioni” da parte di studi di progettazione molto rinomati nel design industriale e nella progettazione edilizia che si cimentano nel diporto apportando anche interessanti spunti che hanno però la necessità di essere “marinizzati” e soprattutto coordinati con gli altri contributi. Non è a mio avviso pensabile che chi progetta gli interni non conosca i criteri e le idee guida del progettista dello scafo che viene considerato semplicemente come un contenitore, così come è paradossale vedere tughe e sovrastrutture “appoggiate” su scafi che hanno chiaramente un’altra impostazione stilistica e tutt’altre proporzioni.
In queste situazioni inoltre quando c’è un nome forte fra la rosa dei progettisti è questo che impone le sue scelte a tutti gli altri a prescindere dalla realizzabilità delle sue idee, costringendo uffici tecnici, strutturalisti ed impiantisti a fare i salti mortali per rientrare nelle norme o per rispettare i parametri tecnici minimi.

Si dirà: ma come è possibile che oggi con l’infinita facilità di rappresentazione grafica e la grande possibilità di approfondimento teorico del progetto, per non parlare della smisurata “potenza di calcolo”, non si riesca a fare quello che i maestri d’ascia e i costruttori navali hanno fatto per secoli quasi “a occhio”?

La risposta è semplice: quello che è venuto a mancare è il tempo. Non solo il tempo di realizzazione della barca ma il tempo per la riflessione e la maturazione delle idee che, dopo essere state verificate, venivano affinate con un lento processo di prova ed errore.

Nell’ultimo quarto di secolo anche le barche sono state consumate troppo in fretta e gli enormi progressi tecnici che spesso hanno coinciso con un’evoluzione formale, non hanno avuto il tempo di consolidarsi e per la necessità squisitamente commerciale di produrre “novità” a getto continuo cercando, nello stesso tempo, di rimanere allineati al gusto corrente, abbiamo bruciato alcune ottime idee e non abbiamo approfondito tipologie e soluzioni meno scontate o non immediatamente “vendibili”, favorendo, nella nautica come in tanti altri settori industriali, la totale omologazione del gusto.

Sono nate così e hanno invaso il mondo in maniera indifferenziata le finestre a occhio di pesce, le prue dritte, le poppe aperte, le infinite scale di poppa, i wide body, ecc…

Nessuno di questi concetti e di queste forme sono belli, buoni, brutti o cattivi in sé ma andrebbero considerati e valutati in relazione all’ idea complessiva e complessa e, ovviamente, al contesto di utilizzo.

A questo proposito voglio concludere richiamando una mia vecchia “provocazione”, più volte ribadita, mai considerata adeguatamente e, ad oggi, superata ma, a mio avviso, esplicativa: quella del V.I.A.M.; vale a dire la Valutazione di Impatto Ambientale Marino che richiamo qui di seguito come espressa in un articolo dell’ottobre 2008.
SIAMO MARINAI O GEOMETRI ?
Da quando, all’inizio degli anni 70, la nautica ha cominciato ad uscire dal “ghetto”, esclusivo e un po’ snob dell’aristocrazia ed ha cominciato ad interessare strati sempre più ampi di popolazione borghese, un po’ alla volta, sono saltati tutti i riferimenti alla cultura nautica classica.Con l’individuazione dei nuovi target è sorta la necessità di differenziare sempre più il prodotto per rispondere alla domanda di distinzione e di visibilità delle nuove classi emergenti.
La forma ha sempre di più, prevaricato la funzione. O meglio, le uniche funzioni alle quali si dà oggi forma sono: correre, stupire, apparire. Al punto che o
Su questa situazione si innesca però un paradosso: Perché le barche, pur essendo sempre meno utilizzate dai loro armatori, devono essere sempre più abitabili a discapito dell’eleganza e delle qualità marine. La risposta è complessa e si può riassumere nelle seguenti considerazioni:rmai non si dice più che la barca è uno “status simbol” non perché, come qualcuno pensa, non sia più vero, ma perché è talmente vero che lo si dà per scontato.

L’introduzione della vetroresina con la sua particolare caratteristica “amorfa”, senza cioè forma propria, lascia completamente libero il progettista di definire forme e volumi privi di storia e di cultura.
La crescita esponenziale delle potenze disponibili dei motori marini e la crescente efficienza delle attrezzature veliche ha permesso di imboccare la scorciatoia dell’aumento della spinta per il miglioramento delle prestazioni, rendendo inutile il più faticoso lavoro di affinamento delle superfici immerse per il contenimento della resistenza
I nuovi utenti della nautica arrivano direttamente ad acquistare barche di grandi dimensioni saltando la classica trafila dal cabinatino di sei metri allo yacht di dodici o quindici metri per la crociera in famiglia. Sempre più spesso si assiste all’ingresso diretto nel mondo dei megayachts partendo dai 25 o dai trenta metri.

Tutto questo fa sì che non vengano minimamente prese in considerazione i classici compromessi che caratterizzano da sempre lo sviluppo dei volumi interni di un’imbarcazione e, conseguentemente le forme esterne. La percezione dello spazio deve essere assolutamente “terrestre”.

Si vedono così sempre più spesso “palazzi galleggianti” con “terrazze sul mare” e grandi “finestre panoramiche”. Imperano i wide body; scafi senza scafo e senza tuga, monoblocchi con un rapporto mc./mq. che farebbe invidia al più esperto dei geometri del catasto. Le poppe diventano scalinate infinite sempre più simili a tempi aztechi. I pulpiti e i candelieri lasciano il posto alle ringhiere e gli antennali e gli alberetti sono sostituiti dai roll-bar. Per concludere le barche si stanno squadrando. L’imponenza prende il posto della grazia.

La barca, che è sempre stata femmina, si sta mascolinizzando per effetto degli anabolizzanti che tutti i giorni, armatori, cantieri, venditori, architetti, giornalisti le somministrano.
Ora, se tutto questo è vero, come io credo, per arginare questa preoccupante deriva, propongo di introdurre nella legislazione nautica vigente, accanto alle direttive comunitarie e alle utilissime normative sul leasing, alcune prescrizioni fondamentali quali il V.I.A.M. ( valutazione di impatto ambientale marino) e l’indice di fabbricabilità (rapporto fra mc./mq.)
Sarà inoltre necessario, per correggere queste gravi lacune, istituire una apposita commissione alla quale progettisti e costruttori debbano sottoporre le loro creazioni affinchè definisca quali imbarcazioni possano accettabilmente ormeggiare in rade o baie come Portofino, Porquerolles, Ponza, ecc…, escludendo quelle che per rapporti volumetrici o eccessi formali risultassero incompatibili con tali contesti dal delicatissimo equilibrio ambientale e morfologico.Tutto questo però riguarda il passato. Oggi non è sicuramente più così, non perché gli utenti sono tutti miracolosamente rinsaviti ma semplicemente perché quel tipo di cliente non c’è più. Sia per mancanza di fondi, sia per cambiamento di priorità e di tendenze. Anche chi la barca se la può ancora permettere, se non la considera la cosa più importante della sua vita (dopo i figli?) non vede l’ora di disfarsene.
Quelli che rimangono che, a occhio rappresentano si e no il 20 % del totale, vogliono una barca (purtroppo spesso ce l’hanno già e se la tengono) che assomigli a una barca, sapendo benissimo che di tipologie di barche ce ne sono comunque moltissime ma che ognuna ha le sue caratteristiche e il suo stile. Quello che non vogliono sono le barche finte, senza personalità, senza coerenza e senza qualità. Come diceva l’ormai dimenticato Carlo Sciarelli: Barche senz’Anima!
Arch. Massimo Franchini San Costanzo 15/Luglio/2011