Il motorsailer prossimo venturo

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MOTORSAILER: STORIA ED EVOLUZIONE

Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi. Invece la crescita esponenziale della comunicazione interpersonale, favorita da avanzatissimi strumenti multimediali, ci spinge a utilizzare parole e definizioni senza riflettere minimamente sul reale significato originario delle stesse, classificandole inconsciamente in grandi categorie quali: corrette, scorrette, attuali, antiquate, buone, cattive ecc. La premessa per dire che, ancor oggi, il termine “motorsailer”, da sempre associato al concetto di “compromesso”, si porta dietro un pregiudizio che ingiustamente rischia di affondare tutta una tipologia di imbarcazioni che invece ha, come tenterò di dimostrare qui di seguito, tutte le caratteristiche per costituire l’unico concreto futuro della nautica. Essa, infatti, è capace di soddisfare le esigenze di una gamma molto vasta di utenti esigenti ed evoluti che, lungi dall’accontentarsi, vogliono ottenere il massimo di “valore d’uso” dalla loro imbarcazione.

Tradotto in italiano, motorsailer equivale a motoveliero, parola dal significato chiarissimo: semplicemente imbarcazione dotata sia di vela sia di motore, logica e naturale per andare in mare con il massimo di comodità e sicurezza e anche nella maniera più economica ed ecologica. Qual è l’ostacolo? C’è stato purtroppo un tale martellare del marketing sulla necessità di velocità in barca da snaturare il concetto stesso della navigazione da diporto, della crociera. Per questo, ancora oggi chi naviga con un motorsailer è un po’ compatito e lui stesso si sente un diportista “sfigatello”, mentre sempre il marketing nautico propone invece da qualche tempo come aggettivo più qualificante e vincente il termine “ibrido”, da tutti connotato positivamente. Se proviamo ad analizzare l’etimologia della parola, scopriamo però che in natura l’ibrido viene definito come <incrocio fra soggetti o elementi di specie, generi o famiglie diverse all’interno di una stessa razza>. In ambito colloquiale, il significato più accettato è <costituito da elementi di natura diversa specialmente se non risolti in una superiore unità>. Quest’ultima definizione, al di là della percezione positiva di cui sopra, ci fa intravvedere invece una qualche deformità (se non mostruosità) insita nel termine “ibrido” se “non risolto in una superiore unità”.

Tutto questo ci riporta al ragionamento iniziale e, in qualche modo spiega parzialmente anche la pessima fama del motorsailer. Proprio quella mancanza di una “sintesi superiore” genera il “mostro-sailer”, un oggetto irrisolto che si definisce per quello “che non è” anziché per quello “che è”. Non è un veliero puro, non è un motoryacht e quasi non è una barca, con quella tuga che rimanda alla casetta, tanto rassicurante quanto poco “marina”.

Il motorsailer secondo Franchini

E allora tentiamo questa benedetta sintesi superiore, proviamo a trasformare il mostro-sailer in un Pegaso alato. E proprio “Sintesi” avevo chiamato uno dei miei primi progetti. Per l’esattezza il secondo, a testimonianza del fatto che già allora ricercavo il giusto equilibrio fra gli estremi. Il primo, senza particolari sforzi di fantasia, l’avevo chiamato “Modulo” cioè “elemento base” o, come si dice fra designer, “concept-boat” – barca paradigma, in architettese – intendendo una barca che rappresentasse senza compromessi e mediazioni, lì e allora, parliamo del 1977, un’idea precisa della navigazione da diporto. In Italia, in quel periodo, la nautica stava attraversando la prima crisi di “crescita” dopo i pioneristici anni del “boom” economico, durante i quali era sì cresciuta ma restando pur sempre un fenomeno di nicchia. Anche se si parlava già di “nautica popolare” ed erano nate (e stavano già morendo) realtà interessantissime come l’Alpa, la Comar e altri lodevoli tentativi di industrializzazione della produzione. Allora nessuno sospettava (e tantomeno sperava) che la nautica potesse fare la galoppata cui abbiamo assistito alla fine del secolo scorso e forse proprio perché era povera e giovane (hungry & foolysh) come me (che povero sono rimasto…e forse anche un po’ matto visto che sono ancora qui a parlarne) aveva una gran voglia di sperimentare e di rimettere in discussione tipologie, modelli, forme e funzioni.

Con questo spirito progettai il “Modulo 37” in risposta (polemica) all’Altura 33 e poi al 42: due barche che conoscevo molto bene perché i primi esemplari li aveva costruiti mio padre per Ferretti e che considero assolutamente rivoluzionarie anche se volutamente sacrificate sull’altare del marketing. Il 33, infatti, con scafo tondo come la poppa, prua piena, barca larghissima e naturalmente comodissima, era una perfetta house boat, con albero e vela stabilizzatrice, appoggiata su uno scafo non molto distante dal peschereccio. L’Altura 42, invece, era un vero e proprio capolavoro di design a opera di quel genio (incompreso e sfruttato come tutti i geni) di Alberto Mercati, che aveva studiato uno schema distributivo degli interni secondo me ancora insuperato. Peccato che, ancora una volta, tutto questo ben di Dio fosse stato collocato all’interno di uno scafo “contenitore” che assomigliava e si comportava più come una portacontainer che come un veliero…e naturalmente anche qui c’erano gli alberi e le vele “stabilizzatrici” (due, perché c’era più roba da stabilizzare).

Io, neolaureato in architettura con una tesi sull’industrializzazione edilizia (!), deluso dalla prima operazione di “way-out” insieme ai Ferretti, pensai bene che la cosa eccezionale fosse proporre un barca assolutamente normale. Mi sforzai pertanto di ottenere il massimo di volumetria abitabile su una barca di 11 metri, misura che consideravo (e considero tutt’ora) come la minima necessaria e sufficiente a un uomo civilizzato per “navigare in altura e abitare in porto”, in uno scafo che in mano a marinai della domenica fosse in grado di governare sia a motore sia a vela in condizioni difficili, ma fosse anche “sorprendentemente” veloce con poco vento e, soprattutto, che avesse un comportamento logico, nel senso di equilibrato e prevedibile. Lo so che quel che affermo sembra il testo di un depliant, ma queste strane idee avevano dato vita a una barca assolutamente “giusta”, né bella né brutta, certamente non trendy, non appariscente, men che meno glamour, ma se provate a chiedere ai circa 120 armatori (in dieci anni abbiamo prodotto quaranta esemplari che sono passati di mano almeno tre volte) vi sfido a trovarne uno che non vi confermi quanto da me pomposamente dichiarato. Un’altra conferma di qualità? Strano fenomeno di questo stranissimo mercato che io, che nulla so di marketing e di finanza, sarei tentato di interpretare come “misura del valore d’uso” o “indice di soddisfazione dell’investimento”, tutti i motorsailer Franchini sono ancora in attività.

Su quei primi miei progetti erano concentrati alcuni dei principi basilari ai quali ho continuato ad attenermi fino a oggi:

L’opera viva e l’opera morta hanno funzioni diverse e spesso contrastanti ma devono interagire e integrarsi;

Senza un controllo rigoroso dei pesi e della loro distribuzione non serve a nulla avere la migliore carena del mondo (o pubblicizzare le foto delle prove in vasca);

Stare bene in barca è importante, ma “muoversi a bordo” con facilità e sicurezza lo è ancora di più;

Ognuno deve avere uno spazio “privato” a bordo, che non necessariamente deve essere “chiuso”;

La consapevolezza di essere su una barca in mezzo al mare è un fattore di sicurezza fondamentale e tutto te lo deve ricordare;

Gli spazi come gli oggetti a bordo devono parlare chiaro all’equipaggio e comunicare immediatamente e intuitivamente la loro funzione: nessuno dovrebbe chiedere ogni dieci minuti: cos’è questo? Posso sedermi qua? Qui do fastidio?

Una barca è sempre “piccola” e richiede un’organizzazione paranoica degli spazi minimi senza impedire la totale ispezionabilità di ogni elemento della struttura e dell’impiantistica;

La barca si deve poter smontare senza segare nulla ma deve restare assieme anche dopo tre notti di bolina a quaranta nodi sullo stesso bordo (e non è solo sovradimensionando le sartie che si ottiene questo risultato);

L’impiantistica deve essere concepita e realizzata da super specialisti e gestita e riparata da perfetti incompetenti;

Ma a questo punto è venuto il momento di parlare di sua maestà il design. Anche qui una piccola premessa filologica: design=disegno. Dal punto di vista della genericità di significato una qualche stretta parentela con motorsailer ce la vedo. Diciamo che sono cugini. Anche in questo caso significa tutto e quindi… molto poco. D’accordo che i significati più accreditati vanno da progettazione (cioè “qualsiasi attività volta a definire preventivamente forme e contenuti di oggetti, processi, attività umane in genere”), a disegno industriale (ma in questo caso sarebbe corretto usare industrial design) a, infine (secondo un’accezione colloquiale molto diffusa che tende a includere nel vocabolo un giudizio qualitativo, di valore), buon (o bel) disegno.

A prescindere da tutto questo, è evidente che il design di un’imbarcazione non può essere considerato la mera definizione delle linee esterne della stessa (quello semmai si chiama styling) ma deve prendere in considerazione tutti gli aspetti dell’oggetto/prodotto barca e ottimizzarli, armonizzandoli.

Se così è, si capisce facilmente quanto complessa e interdisciplinare debba esser l’attività del designer nautico (che io preferisco chiamare “architetto navale”) e quanto sia delicata la sua funzione. Se lo paragoniamo a qualche specialista in malattie rare (la nautica lo è senz’altro anche se, negli ultimi vent’anni aveva preso la forma di una piccola epidemia), vediamo che il suo primo compito dovrà essere quello di effettuare una corretta diagnosi, per poi somministrare al cliente, che quasi mai descrive in maniera corretta i suoi sintomi, la giusta cura.

Fuor di metafora, in più di trent’anni d’attività, non ho mai sentito un cliente dichiarare che la barca la usa solo due o tre settimane all’anno, a poche miglia dalla costa, affidandosi completamente al suo comandante, come in realtà succede nel 70% dei casi. Se così fosse, il consiglio ovvio e onesto da dargli sarebbe quello di affittarla, tendenza che la crisi in atto dovrebbe favorire (ma non è questa la sede per discutere di questo importantissimo tema). Diciamo che, fino a poco tempo fa, tutti i diportisti pensavano di comprarsi la barca sulla quale avrebbero trascorso il resto della loro vita, con la quale magari affrontare Nettuno in persona.

Di conseguenza, anche il disegno e “lo stile” della barca, per essere appetibile, doveva rispecchiare e comunicare questa intenzione di avventura, con forme aggressive o esasperatamente sportive o da “SUV” dei mari ecc…

E qui arriviamo al vecchio, annoso tema della barca come status symbol o come “fine”, cioè rappresentazione di sé, del proprio status sociale ed economico oppure semplicemente dei propri sogni. Barche che, al di là dell’aspetto inutilmente “cattivo” o “maestoso” comunque “distintivo”, hanno rappresentato uno spreco enorme di energie tecniche, progettuali ed economiche, ma anche di spazi in mare e in banchina. Barche nate per viaggiare e spostarsi che ora languono e invecchiano malinconicamente in qualche porto del Mediterraneo. Da (ex) costruttore dovrei gioire del fatto che ci siano armatori disposti, più o meno consapevolmente, a spendere ingenti somme di denaro per produrre cattedrali  nelle quali non si celebrerà mai neanche una messa. Da convinto ambientalista costituzionalmente contrario a qualunque spreco, mi urta invece profondamente questa evidente sproporzione fra risorse impiegate e risultati ottenuti.

Da qui è facile e naturale arrivare a parlare della sbandieratissima svolta green, che anche nella nautica appare come la panacea di tutti i mali, unica, vera rivoluzione epocale. Anche su questo vorrei chiedere una pausa di riflessione e un’analisi oggettiva del rapporto costi/benefici delle innumerevoli iniziative che, a macchia di leopardo ma in maniera sempre più diffusa, tutti i costruttori stanno mettendo in campo per potersi fregiare del titolo di “barca-verde” (per me una contraddizione in termini).

Per quello che si è visto e mi è dato sapere, anche in questo caso a me sembra che, grazie al marketing, la scatola sia divenuta più importante del contenuto. Anche se le aziende nautiche fossero in grado di effettuare ricerca applicata in maniera sistematica ed economicamente sostenibile – che non sia la semplice trasposizione di tecnologie e ritrovati messi a punto in altri settori, cosa per altro perfettamente legittima e anzi, auspicabile – mi chiedo che senso abbia installare sistemi di propulsione elettrici su imbarcazioni che, nella migliore delle ipotesi, riusciranno a fare appena 30 miglia prima di dover ricaricare pacchi di batterie enormi, costosissime, pesantissime e quindi limitanti a loro volta l’autonomia dello scafo ma soprattutto, dal punto di vista ambientale, … molto più inquinanti di qualunque potentissimo diesel moderno. Al momento, se c’è un mezzo realmente ecologico questo è senza ombra di dubbio la barca a vela e se volessimo realmente fare una rivoluzione ambientale dovremmo concentrarci soltanto su di essa. Certamente un giorno si produrranno motori elettrici (a idrogeno? a legna?) in grado di spingere qualunque off-shore in silenzio e senza emissioni inquinanti, attualmente, se non vogliamo vendere fumo, possiamo solo aspettare e concentrarci a far bene quello che abbiamo sempre fatto.

Perché allora, nonostante i pesantissimi problemi di sopravvivenza ci si perde dietro queste chimere? Ancora una volta il colpevole è lui, il marketing, una sorta di convitato di pietra, per rimanere in tema con l’incipit, che tende a invertire i termini del problema, proponendo le domande in funzione delle risposte che l’industria si è già data in termini di prodotti ideati esclusivamente in rapporto alla massimizzazione di margini e allo sfruttamento di vantaggi differenziali che nulla hanno a che vedere con i reali “bisogni” dell’utente.

Ecco allora l’enfatizzazione di caratteristiche e di necessità totalmente “virtuali” che hanno a che vedere con bisogni effimeri o irrealizzabili e che, fino a ieri, avevano il compito fondamentale di indurre la necessità di cambiare barca esattamente come si cambiano le scarpe, l’auto o il cellulare. Non perché quella vecchia non funzioni più, ma perché non mi rappresenta adeguatamente. Inutile aggiungere che quello che deve rappresentare, il più delle volte, non è il mio reale stato sociale ed economico ma quello che vorrei essere: uno status e uno stile di vita che non corrispondono mai, o molto raramente alla realtà. Per intenderci si pensi alla grandeur di certi saloni, al numero di piscine o “jacuzzi” presenti a bordo di barche che, per quanto grandi, rimangono “sproporzionatamente” sottodimensionate rispetto alla quantità di accessori e gadget imbarcati.

Chiariamo: non c’è nessun dubbio che, in ogni epoca, l’uomo abbia profuso il meglio delle proprie energie fisiche e intellettuali per produrre opere ciclopiche o semplicemente magnifiche per soddisfare unicamente esigenze “spirituali”, senza rapporto con la loro utilità pratica, e che questo slancio creativo abbia dato all’umanità tesori inestimabili, dalle Piramidi, al Pantheon, al Bucintoro. Credo però che per l’argomento che stiamo trattando dovremmo volare un po’ più bassi  e limitarci a immaginare “buone e belle barche”.

Non si creda però che questo complesso del faraone abbia riguardato solo l’industria con le sue (legittime) esigenze di guadagno. Sono stati prima di tutto gli utenti (e qui l’Italia fa sicuramente scuola) che, scambiando il mezzo con il fine, a causa della loro scarsissima competenza nautica, hanno raccontato bugie a sé stessi e sentito la necessità di “proteggersi” dietro la tecnologia sostituendo la qualità con la quantità.

In questa gara a “chi ce l’ha più grande” la tendenza a sostituire il software (intelligenza) con l’hardware (potenza) pareva inarrestabile.

I tempi, fortunatamente cambiano… anzi, sono già cambiati. In Occidente quello che fino a ieri era motivo di orgoglio da mostrare al mondo per sottolineare il proprio arrembante (e rombante) successo alla faccia degli invidiosi, dei prudenti e delle timide e sparute “formichine”, è diventato un pesantissimo fardello di cui liberarsi al più presto (cosa ovviamente impossibile vista l’impennata dell’offerta e l’evaporazione della domanda) e del quale vergognarsi.  Il lusso, l’eccesso e lo sfarzo, da slogan potentissimi e abusati da tutti i commerciali e i pubblicitari del mondo, hanno improvvisamente cambiato di segno e significato, connotando i loro cultori quali “cicaloni”, parassiti della società e dilapidatori di risorse umane, ambientali ed economiche. Ancora una volta parole “buone”, avulse dalla realtà, decontestualizzate e trasformate in slogan, appena muta lo scenario diventano “cattive” e i prodotti ai quali sono state appiccicate vengono repentinamente esclusi dal mercato.

Anche per questo ribadisco l’inutilità di dare definizioni, limitandosi a provare di immaginare una tipologia di imbarcazioni adatte alla crociera d’altura capaci di rendere ancora più confortevole e sicura la navigazione a “normali” diportisti e ai loro equipaggi, familiari o professionali che siano, con un livello di complessità e conseguentemente di costo, proporzionato all’utilizzo previsto. Senza dimenticare la funzione “emozionale” di un oggetto che, fra le sue funzioni principali, ha la “piacevolezza” e il “ben-essere” del suo armatore.

E ora, dopo questa lunghissima, forse noiosa ma secondo me indispensabile premessa, nella quale ho parlato quasi esclusivamente del passato, nei prossimi numeri proverò a rappresentarvi praticamente come dovrebbe essere, secondo me, questa nuova generazione di… Barche.

 

PEGASO 75

Su questi concetti sono state concepite tutta una serie di soluzioni quali, per citare solo alcuni esempi:

La timoneria avanzata in modo da permettere al timoniere di avere la gestione di tutte le manovre senza spostarsi dalla sua postazione.

Le rotaie e le lande posizionate sugli spigoli delle tuga per massimizzare la resistenza e per lasciare sgombri i passavanti.

Il prendisole a poppa; dove il sole c’è sempre anche con tutte le vele a riva.

Gli oblò in tuga cioè all’altezza degli occhi e non a scafo a livello stomaco.

Uno studio attentissimo dell’areazione naturale che non obblighi l’equipaggio a correre a sigillare tutto ancora prima di uscire dal porto e che permetta di usare al minimo (e magari rinunciare del tutto alla climatizzazione forzata)

I gavoni, il motore e i serbatoi a centro barca più vicini possibile al baricentro in modo che, pieni o vuoti che siano, possono incidere sulla velocità ma mai sulla stabilità.

La sentina profonda e sempre ispezionabile.

La falchetta strutturale.

Il letto dell’armatore con la testa vicino all’albero e quindi al punto più stabile della barca e, nel caso di matrimoniale, posto sempre centralmente con materassi separati in modo da poter inserire una sponda antirollio anche al centro.

L’organizzazione degli interni a isole per permettere ad ognuno di trovare il suo posto e rimanerci senza dover continuamente spostarsi per far passare qualcuno.

I percorsi interni studiati per percorrere la barca anche al buio senza contorsionismi o rischi di trauma cranico.

La massima rigidità longitudinale e torsionale per migliorare le prestazioni ma anche per aprire le porte anche di bolina.

Un diagramma dei volumi che permetta all’armatore il massimo di controllo sul timone in ogni condizione.

Ecc……..

Naturalmente tutto questo non significa che, definite le regole auree, le barche devono essere tutte uguali o che, una volta messa a punto “la barca perfetta” noi architetti possiamo andare tutti in miniera (dove daremmo solo fastidio). Gli spazi per cambiare, innovare…..creare (!!!!!) sono ampissimi e hanno a che vedere con due fattori importantissimi, estremamente dinamici e interagenti fra loro: lo sviluppo tecnologico e le disponibilità economiche. Questi elementi fanno si che a problemi noti vengano date risposte nuove e avanzate o, in altri termini, sia possibile oggi risolvere problemi che ieri erano ritenuti insolubili. Si pensi banalmente allo sviluppo dei materiali per quanto riguarda strutture, attrezzature veliche, vele, ecc. Non è certo una novità che le barche per essere veloci, efficienti e, di conseguenza, più sicure, devono tendere ad essere più leggere possibile. Non è invece per niente scontato che oltre ai pesi propri del progetto (il famoso esponente di carico) si debbano valutare anche i pesi “portati” dall’armatore e dai suoi ospiti. Ed è altrettanto incredibile che nessuno, o quasi, si renda conto che se faccio un garage di poppa da 100 mc. e ci metto dentro un bel idrogetto da una tonnellata più accessori, il “motorsailer” che lo ospita abbia qualche problema a bolinare e sia un po’ rigido sul timone.

Questo non significa però che, se voglio godermi la mia barca debba andare a riva a nuoto o bere acqua piovana. Come dicevo prima: mutano le esigenze e muta la tecnologia che ci consente, proporzionalmente alla spesa che posso permettermi, di soddisfarle. Nel caso specifico, ad esempio, utilizzerò un tender progettato per le barche a vela ( con elementi facilmente smontabili? In carbonio? Ecc?)

In sostanza dobbiamo applicare soluzioni nuove a problemi antichi.

Per farlo dobbiamo ricominciare da capo quindi:

RESET:Prima di tutto cerchiamo di individuare quali siano gli elementi da sintetizzare e prima di parlare di oggetti, prestazioni, aspettative diciamo subito che i due elementi fondamentali; i “soggetti” sono sicuramente l’uomo e il mare dove il primo cambia di continuo (soprattutto cambiano le sue esigenze ed aspettative) mentre il secondo rimane immutabile nelle sue caratteristiche e nei suoi comportamenti (primo fra tutti l’imprevedibiltà).

Se però consideriamo l’uomo solo per i suoi parametri fisici notiamo che sostanzialmente è quello rappresentato da Leonardo con lo schema vitruviano: quelle sono le sue misure e le sue proporzioni e in base a quelle deve essere sviluppato ogni ambiente entro il quale quest’uomo vive e si muove. Chiarito che da questo aspetto “ergonomico” non si può prescindere dobbiamo ovviamente considerare che altrettanto importanti sono le esigenze di benessere spirituale ed emotive. (non possiamo dimenticare che di diporto stiamo parlando) quindi dobbiamo preoccuparci di creare “atmosfere” che favoriscano il rapporto col mare e con i nostri compagni tali da enfatizzare la specificità di quella situazione. A scanso di equivoci non penso che per questo sia necessario navigare sbandati a 30 gradi con secchiate d’acqua gelida che ti scendono lungo il collo, Sono però altrettanto convinto che non abbia molto senso vivere a bordo di uno yacht con lo stesso spirito e con la stessa percezione dello spazio o con gli stessi ritmi e abitudini che contraddistinguono la vita in città o comunque a terra.

Questi a grandi linee sono, secondo me, i contenuti o meglio, le richieste di prestazione del nostro “PEGASO” per quanto riguarda il “dentro” e il “sopra”. Se invece parliamo dello scafo, come dicevo prima, non possiamo considerarlo solo un “contenitore” ma dobbiamo, prima di tutto, assogettarlo alle regole della fluidodinamica che, sebbene affinate e meglio interpretate dalla smisurata capacità di calcolo oggi disponibile, non sono sostanzialmente diverse da quelle conosciute e utilizzate da Froude o da Herreshof nell’ottocento. Questo non significa che gli scafi debbano necessariamente assomigliare a quelle barche ma semplicemente che devono rispondere alle stesse leggi e che lo possono fare in molti modi diversi. Oggi come allora; Se si analizzano le carene dei clipper inglesi o delle galere veneziane o delle navi vichinghe si ritrovano forme e soluzioni, fra loro apparentemente molto diverse ma che, appendici a parte, oggi potrebbero essere considerate all’avanguardia e figlie di qualche supercomputer. Se guardiamo poi all’evoluzione degli slanci viene il sospetto che il vero problema non sia l’efficienza in acqua ma quale sia la poppa più trandy qest’estate a Portocervo o quale sia invece la prua più adatta alle banchine di Newport a settembre. La realtà è molto più semplice: Uno scafo non è riconducibile a un dato (e quindi ad una forma universale) ma, sempre con larga approssimazione, possiamo rappresentarlo come un’equazione molto complessa con un numero enorme di variabili che cambiano continuamente. In quanto tale, una buona barca da crociera, adatta ad affrontare qualunque situazione in mano ad equipaggi eterogenei e quasi mai professionali, sarà sempre “media”.

Nell’approccio al progetto dobbiamo quindi abbandonare certezze e pregiudizi e riverificare ogni volta le soluzioni immaginate alla luce di tutti i fattori in gioco avendo cura di scartare le situazioni estreme. In pratica credo quindi che sia profondamente sbagliato cristallizzarsi su soluzioni o forme particolari come, per fare alcuni esempi: la poppa larga o a cuore o all’inglese , la prua verticale, ad ascia, a clipper, il fondo piatto, la fin keel, il 7/8, il bompresso, la tuga quadra, il flush deck, lo scafo a spigolo, ecc.. ritenendole “giuste” o “universali”. Tutte queste soluzioni e moltissime altre, sono state ampiamente utilizzate nei secoli scorsi ed ognuna ha avuto il suo momento di gloria, superata da altre “più moderne” salvo poi ritornare in auge come il cappotto di cammello o il principe di Galles. Ogni forma ha (o dovrebbe avere) un suo scopo e una sua ragione di essere in funzione di tutti gli altri parametri dello scafo e quindi, teoricamente, tutte possono essere valide se usate coerentemente con il contesto specifico.

 

 

SM45 Amerigo

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