Siamo marinai o geometri?

Da quando, all’inizio degli anni 70, la nautica ha cominciato ad uscire dal “ghetto”, esclusivo e un pò snob dell’aristocrazia ed ha cominciato ad interessare strati sempre più ampi di popolazione “borghese”, un po’ alla volta, sono saltati tutti i riferimenti alla cultura nautica classica.

Con l’individuazione dei nuovi target è sorta la necessità di differenziare sempre più il prodotto per rispondere alla domanda di distinzione e di visibilità delle nuove classi emergenti.

La forma ha prevaricato la funzione. O meglio, le uniche funzioni alle quali si dà oggi forma sono: correre, stupire, apparire. Al punto che ormai non si dice più che la barca è uno “status yimbol” non perché, come qualcuno pensa, non sia più vero, ma perché è talmente vero che lo si dà per scontato.

Su questa situazione si innesca però un paradosso: Perché le barche, pur essendo sempre meno utilizzate dai loro armatori, devono essere sempre più abitabili a discapito dell’eleganza e delle qualità marine. La risposta è complessa e si può riassumere nelle seguenti considerazioni:

L’introduzione della vetroresina con la sua particolare caratteristica “amorfa”, senza cioè forma propria, lascia completamente libero il progettista di definire forme e volumi privi di storia e di cultura.

La crescita esponenziale delle potenze disponibili dei motori marini e la crescente efficienza delle attrezzature veliche ha permesso di imboccare la scorciatoia dell’aumento della spinta per il miglioramento delle prestazioni, rendendo inutile il più faticoso lavoro di affinamento delle superfici immerse per il contenimento della resistenza.

I nuovi utenti della nautica arrivano direttamente ad acquistare  barche di grandi dimensioni saltando la classica trafila dal cabinatino di sei metri allo yacht di dodici o quindici metri per la crociera in famiglia. Sempre più spesso si assiste all’ingresso diretto nel mondo dei megayachts partendo dai 25 o dai trenta metri.

Tutto questo fa sì che non vengano minimamente prese in considerazione i classici compromessi che caratterizzano da sempre lo sviluppo dei volumi interni di un’imbarcazione e, conseguentemente le forme esterne. La percezione dello spazio deve essere assolutamente “terrestre”.

Si vedono così sempre più spesso “palazzi galleggianti” con “terrazze sul mare” e grandi “finestre panoramiche”.

Imperano i wide body; scafi senza scafo e senza tuga, monoblocchi con un rapporto mc./mq. che farebbe invidia al più esperto dei “geometri” del catasto. Le poppe diventano scalinate infinite sempre più simili a tempi aztechi. I pulpiti e i candelieri lasciano il posto alle ringhiere e gli antennali e gli alberetti sono sostituiti dai roll-bar. Per concludere le barche si stanno squadrando. L’imponenza prende il posto della grazia.

La barca, che è sempre stata femmina, si sta mascolinizzando per effetto degli anabolizzanti che tutti i giorni, armatori, cantieri, venditori, architetti, giornalisti le somministrano.

Ora, se tutto questo è vero, come io credo, per arginare questa preoccupante deriva, propongo di introdurre nella legislazione nautica vigente, accanto alle direttive comunitarie e alle utilissime normative sul leasing, alcune prescrizioni fondamentali quali il V.I.A. ( valutazione di impatto ambientale) e l’indice di fabbricabilità (rapporto fra mc./mq.)

Sarà inoltre necessario, per correggere queste gravi lacune, istituire una apposita commissione alla quale progettisti e costruttori debbano sottoporre le loro creazioni affinchè definisca quali imbarcazioni possano accettabilmente ormeggiare in rade o baie come Portofino, Porquerolles, Ponza, ecc…, escludendo quelle che per rapporti volumetrici o eccessi formali risultassero incompatibili con tali contesti dal delicatissimo equilibrio ambientale e morfologico.