Il motorsailer secondo Franchini

Da quando progetto e costruisco barche da crociera mi è stata appiccicata l’etichetta di “motorsilerista” che, per alcuni velisti “duri e puri” è una specie di marchio di infamia. Io che invece penso che tutte le barche dotate di vela e motore siano dei motorsiler ho sempre lavorato per dare piena dignità a questa categoria di imbarcazioni che altro non è che la sintesi fra gli innumerevoli modi di navigare per chi considera la barca più come un mezzo che come un fine.

Allora proviamo a trasformare il MOSTRO-SAILER in un PEGASO alato e tentiamo questa benedetta sintesi.

“SINTESI” era il nome di uno dei miei primi progetti. Per l’esattezza il secondo, a testimonianza del fatto che già allora (1979) quello ricercavo: il giusto equilibrio fra gli estremi.
Il mio primo progetto di imbarcazione l’avevo batezzato, senza particolari sforzi di fantasia,: “MODULO” cioè “elemento base” o, come si dice fra designer: “concept-boat”; barca paradigma, in architettese, intendendo una barca che rappresenta senza compromessi e mediazioni un’idea precisa della navigazione da diporto “qui ed ora”. Anzi “li e allora”.
Parliamo del 1977. In Italia la nautica stava attraversando la prima crisi di “crescita” dopo i pioneristici anni del “boom” economico durante i quali era si cresciuta ma restando pur sempre un fenomeno di nicchia. Anche se si parlava già di “nautica popolare” ed erano nate (e stavano già morendo) realtà interessantissime come l’Alpa, la Comar e altri lodevoli tentativi di industrializzazione della produzione. Allora nessuno sospettava (e tantomeno sperava) che la nautica potesse fare la galoppata cui abbiamo assistito alla fine del secolo scorso e forse proprio perché era povera e giovane (hungry & foolysh) come me (che povero sono rimasto…e forse anche un po’ matto visto che sono ancora qui a parlarne) aveva una gran voglia di sperimentare e di rimettere in discussione tipologie, modelli, forme e funzioni. Con questo spirito progettai il “Modulo 37” in risposta (polemica) all’Altura 33 e poi al 42 di Ferretti: due barche che conoscevo molto bene perché i primi esemplari li aveva costruiti mio padre e che considero assolutamente rivoluzionarie per quanto sbagliate. Il 33 era la classica “vasca da bagno”; scafo tondo come la poppa, prua piena, larghissima e, naturalmente: comodissima! Una perfetta house boat appoggiata su uno scafo da peschereccio. Ah dimenticavo: aveva anche l’albero ed una vela “stabilizzatrice”
L’Altura 42 invece era un vero e proprio capolavoro di design ad opera di quel genio (incompreso e sfruttato come tutti i geni) di Alberto Mercati che aveva studiato uno schema distributivo degli interni secondo me ancora insuperato. Peccato che, ancora una volta, tutto questo ben di Dio fosse stato collocato all’interno di uno scafo “contenitore” che assomigliava e si comportava più come una portacontainer che come un veliero…e naturalmente anche qui c’erano gli alberi e le vele “stabilizzatrici” (due perché c’era più roba da stabilizzare).
Io, neolaureato in architettura con una tesi sull’industrializzazione edilizia (!?), scottato dalla prima operazione di “way-out” dei Ferretti che avevano piantato in asso mio padre dopo avergli fatto fare una società dove uno pagava e l’altro incassava, pensai bene, come dice il grande Lucio, che la cosa eccezionale (dammi retta) fosse fare un barca assolutamente normale e mi sforzai di ottenere il massimo di volumetria abitabile su una barca di 11 mt; misura che consideravo (e considero tutt’ora) come la minima necessaria e sufficiente ad un uomo civilizzato per “navigare in altura e abitare in porto”, in uno scafo che fosse in grado di governare sia a motore che a vela in condizioni difficili ed in mano a marinai della domenica ma che fosse “sorprendentemente” veloce con poco vento e soprattutto, che avesse un comportamento logico; nel senso di equilibrato e prevedibile. Lo so che sembra il testo del depliants ma queste strane idee avevano dato vita ad una barca assolutamente “giusta”; ne bella ne brutta, certamente non trendy, non appariscente, men che meno: “glamour” ma se provate a chiedere ai circa 120 armatori (in dieci anni abbiamo prodotto quaranta esemplari che sono passati di mano almeno tre volte) vi sfido a trovarne uno che non vi confermi quanto da me pomposamente dichiarato.
Su quei miei primi progetti erano concentrati alcuni dei principi ai quali ho continuato ad attenermi fino ad oggi, che molti hanno ripreso e che ritrivate in tutte le realizzazione qui illustrate.

Fra questi ve n’è uno che li sintetizza tutti; Le barche navigano dalla linea di galleggiamento in giù e si abitano dalla linea di galleggiamento in su. Non ho mai capito quelli che giudicano le prestazioni di una carena guardando la tuga !